Bambini, troppo tablet può causare ritardo del linguaggio

Bambini, troppo tablet può causare ritardo del linguaggio

Lo sostiene una ricerca presentata al 2017 Pediatric Academic Societies Meeting.

BAMBINI piccoli che passano troppo tempo a giocherellare sul tablet e sui dispositivi elettronici. Già dai sei mesi cliccano sulle finestre luminose dei computer, quasi ipnotizzati dai giochini colorati. A volte sono soli, senza mamma e papà a controllare. Tutto questo potrebbe creare problemi nella crescita e un ritardo del linguaggio. A sostenerlo una ricerca canadese presentata al 2017 Pediatric Academic Societies Meeting.

L’età a rischio, secondo gli studiosi, è quella tra i sei mesi e i due anni. Maggiore è il tempo trascorso a giocherellare con i dispositivi, maggiore è il rischio di ritardi nello sviluppo del linguaggio. “Penso che sia il primo studio che si sia occupato di esaminare il rapporto fra ipad e i problemi di linguaggio nei piccoli – spiega Catherine Birken, primo autore della ricerca all‘Hospital for Sick Children di Toronto, in Ontario – . E’ la prima volta che si fa luce su questa questione, ma servono ulteriori verifiche per validare ulteriormente i risultati del nostro studio”.

La ricerca ha esaminato le giornate di un campione di 900 bambini di 18 mesi e ha calcolato quanti minuti passavano ‘intrattenuti’ dal tablet. Gli studiosi hanno controllato chi fra loro aveva problemi di linguaggio. Si è cercato di verificare quante parole conoscevano, se usavano suoni o paroline per comunicare e richiamare l’attenzione degli adulti.

Il 20% dei piccoli che sono stati coinvolti nella sperimentazione passava una media di 28 minuti al giorno davanti allo schermo. Quelli che lo usavano per 30 minuti in più, in tutto 58 minuti, aveva il 49% di possibilità in più di sviluppare un ritardo del linguaggio. Non sono stati invece messi in luce altri problemi come, ad esempio, difficoltà motorie o di di interazione. Insomma i piccoli utilizzatori di ipad e computer imparavano a parlare molto più lentamente e con più difficoltà.

(fonte: repubblica.it)

Font per dislessici

Il font per dislessici

Avere otto anni e saper leggere appena come un bimbo di cinque, nonostante una grande intelligenza e una spiccata propensione per la musica. Quando il torinese Federico Alfonsetti ha visto per la prima volta il miglior amico del figlio non riuscire a fare i compiti, ha deciso che bisognava fare qualcosa. Ma cosa? «Non si poteva rottamare in quel modo il cervello di un bimbo così intelligente: ho parlato con i genitori e mi hanno spiegato che era dislessico e aveva particolari problemi con la scrittura e la lettura». E lavorando in una casa editrice, non poteva che prendersi a cuore il problema.  

 

Ricerche sul campo  

«Ho chiesto ai genitori quali fossero i problemi più comuni, per farmi un’idea». A fare il resto è stata la sua passione per l’arte e per il design: «Il problema del ragazzino non era tanto leggere quanto capire quello che c’era scritto. Allora ho deciso di mettermi a disegnare a mano un font, proprio come quelli che ci facevano copiare a scuola con la china, ma senza barriere di lettura». Ci sono voluti cinque anni ad Alfonsetti per mettere a punto il carattere speciale: anni fatti di studi e sperimentazioni, alla ricerca del design perfetto. Quei due ragazzini che facevano i compiti in salotto l’anno prossimo daranno la maturità. E oggi il carattere di quel papà – ribattezzato EasyReading – è una realtà già utilizzata per libri e siti internet, che si prepara a sbarcare anche nel mondo della segnaletica. Ha debuttato nella scorsa edizione del Salone del Gusto di Slow Food. Sempre a Torino è stato utilizzato dal Museo del Cinema e in questi giorni si mette in mostra a Milano – a Palazzo Reale così come in Triennale e al museo Poldi Pezzoli – al fianco della Fondazione Arnaldo Pomodoro, nei festeggiamenti per i 90 anni dell’artista.  

 

Impresa grafica  

«EasyReading è l’unico font ad alta leggibilità al mondo. A dimostrarlo sono diverse ricerche scientifiche, che hanno evidenziato come sia un carattere facilitante per tutti». Il segreto? «È una questione di “riccioli”. Anzi, di “grazie”, come vengono chiamate in gergo tipografico». In sostanza «nessuna lettera è uguale ad un’altra: una p non è fatta come una d capovolta, ma cambiano i contorni, in modo che il cervello sia in grado di distinguerle sempre», spiega Alfonsetti. Risultato: i dislessici fanno meno fatica; chi non ha problemi, legge più velocemente e con meno errori. E viste le sue peculiarità, anche il ministero italiano dello Sviluppo Economico ha deciso di riconoscergli un incentivo finanziario. A promuoverlo in tutto il mondo è ora un team di cinque persone: un’impresa grafica in tutti i sensi, che si presta ad ogni settore, «dai biglietti del bus ai caschi con monitor dei militari». 

 

fonte: La Stampa

 

Vuoi ricevere il calendario 2017?

Clicca qui, compila il form e lo riceverai direttamente gratuitamente a casa tua!!!

I bambini tirano fuori la lingua quando sono concentrati, perché?

I bambini tirano fuori la lingua quando sono concentrati

lingua fuori bambini

I bambini lo fanno spesso, almeno fino ai 6 anni: quando sono molto concentrati tirano fuori la lingua. Ma da cosa proviene un gesto simile? Una nuova ricerca, pubblicata sulla rivista “Cognition”, per la prima volta prova ad offrire una spiegazione. Secondo i ricercatori inglesi e svedesi che hanno condotto lo studio, non si tratterebbe solo di un’abitudine dei piccoli, ma di qualcosa che ha a che fare con il modo in cui si origina il linguaggio.

Gli studiosi hanno osservato e filmato 14 bambini di quattro anni mentre erano impegnati in una serie di compiti che richiedevano grande concentrazione: uno consisteva nell’aprire e chiudere un lucchetto e prevedeva dunque una buona padronanza dei propri gesti, un altro richiedeva doti di comprensione di un testo narrato e l’abilità di ricordare i dettagli di una storia, un altro ancora doti comunicative: al gesto del ricercatore (un colpo sul tavolo) corrispondeva il gesto del bambino (un altro colpo con il palmo della mano aperto). I ricercatori hanno poi studiato i video raccolti per capire in quali situazioni e quanto spesso i piccoli tirassero fuori la lingua. E da quale parte quest’ultima tendesse ad andare.

Dall’esperimento è emerso che tutti i bambini osservati hanno tirato fuori la lingua, a conferma del fatto che è un’abitudine molto diffusa in tenera età. Ma a contraddire le aspettative degli studiosi è stato il “quando”: non l’hanno tirata fuori mentre facevano il primo gioco (quello che richiedeva più controllo dei propri gesti), ma durante l’ultimo, quello che metteva in atto il meccanismo della comunicazione: “Tutto ciò ha senso in relazione alla storia evolutiva del linguaggio. Quel gioco è rapido, richiede gesti della mano e interazione – spiega il ricercatore Christian Jarrett – E sono questi i rudimenti del linguaggio”.

Le regioni della corteccia cerebrale che sono responsabili dei movimenti della bocca e di quelli delle mani si trovano a stretto contatto. Secondo alcune teorie sull’evoluzione del linguaggio, prima della fase “parlata” c’è stata una fase gestuale, durante la quale ci esprimevamo solo a gesti. Poi c’è stata una transizione ma parole e gesti hanno continuato a dipendere dallo stesso emisfero cerebrale sinistro. E proprio perché controllata dalla parte sinistra del cervello, la lingua tenderebbe ad andare verso destra. “Mani e lingua hanno una relazione reciproca: ecco perché quando le azioni che si richiedono sono complicate la lingua fa capolino”, spiegano i ricercatori. Ma se è un gesto così spontaneo perché sono pochi gli adulti che continuano a farlo? Secondo gli studiosi, la spiegazione deriva dal fatto che “siamo cresciuti”: tutta colpa della connotazione negativa che diamo alla cosiddetta “linguaccia”.

 

Articolo di Ilaria Betti – L’Huffington Post

SALUTE SUL telefonino

La salute sul telefonino

La salute sul telefonino

24 LUG – Si è insediato, presso il Ministero della Salute, il tavolo di lavoro sulla mobile Health. Il gruppo lavorerà per la tutela della salute dei cittadini in relazione alla diffusione della pratica della medicina supportata da dispositivi mobili come PDA e telefoni cellulari mediante l’utilizzo di applicazioni specifiche progettate per finalità mediche (med apps) quali la raccolta di dati clinici, trasmissione di informazioni sullo stato di salute al personale medico o agli stessi pazienti.

“Il fenomeno sta assumendo una dimensione sempre più rilevante – sottolinea una nota del Ministero – in relazione all’ampia e crescente diffusione di tali applicazioni, che sono di facile accesso e di costo contenuto mentre, nel contempo, sussiste una necessità di regolamentazione della materia e una ridotta conoscenza della popolazione nel corretto utilizzo di tali risorse.

La Direzione Generale dei Dispositivi Medici e del Servizio Farmaceutico ha da tempo posto un particolare focus sui rischi derivanti da tale pratica e sulla necessità di una sua corretta regolamentazione. Il tavolo di lavoro vede la partecipazione di rappresentanti dell’Istituto Superiore di sanità, dell’Aifa, dell’Agenzia per l’Italia digitale, del Ministero dello Sviluppo Economico, del Garante per la privacy, delle Università e delle principali Associazioni di categoria (Assobiomedica, Farmindustria, Società italiana di telemedicina) al fine di creare un ambiente istituzionale e collaborativo tra i soggetti che condividono l’esigenza di sistematizzare e gestire al meglio l’evoluzione tecnologica applicata al mondo della salute.

Più nello specifico ed in tempi brevi grazie alla partecipazione cooperativa di tutti i soggetti sopra citati, si intende pervenire ad adeguamenti normativi delle Apps mediche con riguardo al loro monitoraggio, produzione, distribuzione ed utilizzo nell’ambito della salute.
 (FONTE: QUOTIDIANO SANITA’)

 

AIUTACI A SOSTENERE I NOSTRI SOGGIORNI ESTIVI CLICCA QUI!

san francesco neglect

Diagnosi e riabilitazione del neglect

Diagnosi e riabilitazione del neglect

(Fonte BRIAN FACTOR) PARIGI – Paolo Bartolomeo è Direttore di Ricerca all’INSERM, Brain and Spine Institute, di Parigi e professore di Neuropsicologia all’Università Cattolica di Milano. Lo abbiamo intervistato sulla diagnosi e sulla riabilitazione del “neglect”.

Professor Bartolomeo, lei studia le conseguenze delle lesioni all’emisfero destro. Mentre si sente spesso parlare delle conseguenze delle lesioni cerebrali dell’emisfero sinistro, il suo tema è meno conosciuto. A cosa pensa che sia dovuta questa differenza?

Probabilmente le funzioni svolte dall’emisfero sinistro, quali il linguaggio e il calcolo matematico, attirano maggiormente l’attenzione in quanto definibili e misurabili abbastanza facilmente. È più difficile invece definire le funzioni gestite dall’emisfero destro, quali l’attenzione visio-spaziale che ci permette di orientarci, renderci conto di quello che ci circonda e andare a cercare quello che ci interessa. Inoltre, i sintomi risultano maggiormente riconoscibili nel caso di soggetti con lesioni del lato sinistro. Un’incapacità di parlare, ad esempio, risulta chiaramente percepibile sia per il soggetto affetto dal deficit che per l’ambiente circostante. Diverso è il caso dei disturbi dell’attenzione, nei quali spesso il soggetto è convinto di percepire l’ambiente circostante nella sua totalità, mentre in realtà ne ignora alcuni aspetti. Il sintomo diventerebbe evidente per il soggetto e per il suo ambiente solo in casi specifici, per esempio qualora si trovasse a sbattere contro un oggetto non percepito. Questo significa che i sintomi di questo tipo di lesioni possono più facilmente passare inosservati e si può essere portati a ritenerli di minore gravità.

Lei si occupa di neglect, una delle più frequenti patologie derivanti da lesioni all’emisfero destro. Ci può spiegare in cosa consiste?

Il neglect ha luogo in seguito a lesioni (spesso vascolari) delle reti frontoparietali dell’emisfero destro, che governa il lato sinistro del corpo. Come conseguenza, Il paziente smette di prestare attenzione a tutto ciò che si trova a sinistra. Per esempio, se gli si rivolge la parola da sinistra non risponde, o risponde a qualcuno che si trova sulla destra. Si comporta quindi come se la metà sinistra del mondo non esistesse. Mangia solo quello che si trova nella parte sinistra del piatto, può andare a sbattere nella parte sinistra delle porte o dei mobili. Inoltre, può smettere di lavarsi, truccarsi, o rasarsi la parte sinistra del corpo. Si tratta quindi di un disturbo che riguarda sia la percezione dello spazio extrapersonale, sia a volte quella del proprio corpo.

Da un punto di vista emotivo, come vivono questa realtà i soggetti affetti da neglect?

Mentre i soggetti con lesioni all’emisfero sinistro hanno reazioni di non accettazione, normali o addirittura esagerate, quelli con lesioni all’emisfero destro vivono spesso un appiattimento emotivo: non danno importanza al deficit, fanno battute, sembrano non prendere in considerazione il disturbo in modo adeguato dal punto di vista emotivo. Un’altra reazione possibile è l’odio per la parte sinistra perché non si vuole più muovere, reazione anche questa emotivamente inadeguata. Infine, certi soggetti sviluppano deliri psichiatrici, creando delle storie. Possono ad esempio affermare che la loro mano sinistra è di qualcun altro. Si tratta di deliri di appartenenza, che si verificano unicamente in caso di lesioni all’emisfero destro e che sono probabilmente opera dell’emisfero sinistro, responsabile dell’interpretazione della realtà. In questo caso, a seguito della lesione, l’emisfero sinistro propone un’interpretazione non veritiera, inventa delle storie per cercare di razionalizzare una situazione difficile da comprendere.

La consapevolezza del deficit ha un forte impatto sulla motivazione a recuperare, elemento chiave del processo di riabilitazione…

Certo. I pazienti che hanno una lesione dell’emisfero sinistro, rendendosi conto di avere un problema motorio del lato destro, possono avere una reazione chiamata “catastrofica”, cioè una grande depressione, che è naturalmente giustificata perché la situazione è tragica. L’atteggiamento è completamente diverso per coloro che hanno un problema all’emisfero sinistro, che possono arrivare a negare la realtà o addirittura rigirano la patologia in derisione. Questo permette di non soffrirne, ma allo stesso tempo non facilita il recupero.

Vediamo adesso come si può diagnosticare il neglect.

Si tratta perlopiù di test con carta e matita. Per esempio, si può chiedere al paziente di mettere un segno su tutte le barrette distribuite alla destra e sinistra di un foglio. Mentre un soggetto tipico inizierebbe dalla parte sinistra del foglio, il paziente con neglect comincia dalla parte destra. Inoltre si ferma alla metà del foglio. Individua unicamente le barrette nel lato destro, ignorando quindi quelle del lato sinistro, quella metà del mondo che per lui non esiste. Qualora si inviti il soggetto ad assicurarsi che ha messo un segno su tutte le barre, questi spesso persevera sullo spazio del foglio che aveva già esaminato invece di rivolgersi alla parte sinistra che non aveva esaminato. Un test simile consiste nel cerchiare tutte le lettere A presenti in un foglio. Questo test richiede una doppia attenzione: spaziale, per esaminare il foglio nella sua interezza e selettiva, per individuare la lettera A rispetto alle altre lettere. Si tratta quindi di un test più sensibile. Mentre nel caso di forme più lievi di neglect è possibile eseguire correttamente il test che richiede di sbarrare le linee, non è invece possibile eseguire quello che richiede di cerchiare una lettera. Un altro test interessante è quello della bisezione di linee: si presenta un foglio in cui sono disegnate delle linee orizzontali, disposte alla destra e alla sinistra del foglio. Si richiede al paziente di tracciare un segno al centro di ogni linea. I pazienti affetti da neglect non sono in grado di individuare il centro della linea, quindi tracciano il segno verso la parte destra della linea. Inoltre, a volte considerano unicamente le linee situate nel lato destro del foglio. Infine, è possibile richiedere di fare effettuare dei disegni. Celebre è il caso di Federico Fellini, che in seguito a un ictus aveva avuto una lesione della parte destra del cervello. Nei suoi disegni, gli elementi principali sono collocati sulla destra, il peso dell’attenzione si sposta sulla destra e le figure collocate sulla sinistra sono incomplete.

Quali sono le possibilità di recupero dei soggetti affetti da neglect?

Nella maggior parte dei casi, una riabilitazione completa è difficile. Rimangono dei deficit residui. Questi pazienti per esempio non possono più guidare perché non sono in grado di prendere adeguatamente in conto gli elementi che si trovano nel lato sinistro del loro ambiente. Sarebbe più corretto parlare di strategie di compensazione, piuttosto che di recupero. Secondo delle ipotesi che stiamo studiando, questa compensazione avverrebbe grazie all’emisfero sinistro, che con il tempo impara a rendersi conto di quello che succede a sinistra, mentre abitualmente si occupa solo di ciò che accade nell’ambiente destro. Secondo dati che abbiamo pubblicato su Brain recentemente, qualora sia danneggiata la parte posteriore del corpo calloso, la più importante via di comunicazione tra i due emisferi, il neglect rischia di cronicizzarsi e quindi di persistere a distanza di anni dalla lesione cerebrale. Noi pensiamo che l’associazione di un danno delle reti frontoparientali dell’emisfero destro e di un danno interemisferico delle connessioni callosali possa rendere impossibile la compensazione del neglect, il che proverebbe che questa compensazione viene dall’emisfero sinistro. Questa è la nostra ipotesi, ma ci stiamo ancora lavorando.

Quali sono i trattamenti attualmente disponibili?

Un trattamento che funziona in alcuni pazienti è l’adattamento prismatico, scoperto circa 15 anni fa in Francia. Si fanno indossare ai pazienti degli occhiali che deviano il campo visivo di dieci gradi verso la destra. Sono occhiali che non danno visione laterale, tutto sembra normale perché tutto è deviato da un lato. Tuttavia, confrontandosi con la realtà, per esempio cercando di prendere una penna, la visione non è inizialmente calibrata e il movimento è deviato verso destra. Facendo una serie di tentavi, alla fine il sistema visivo si adatta. Quando gli occhiali si tolgono, però, questo adattamento devia i movimenti verso sinistra, il che compensa i segni di neglect. Non si tratta di qualcosa di cosciente, ma di un adattamento automatico del sistema visivo. Questi occhiali permettono quindi di compensare, e il neglect sembra sparire in modo spettacolare, anche se temporaneamente.

neglect

Come si spiega questo adattamento prismatico?

L’ipotesi su cui lavoriamo attualmente è che forse questo adattamento permetterebbe nuovamente ai due emisferi di parlare nonostante la lesione del corpo calloso. Parlerebbero infatti attraverso un’altra via, quella che passa attraverso il cervelletto, una struttura contenuta nella parte posteriore del cranio che serve soprattutto a regolare il movimento ma è anche implicata nei processi di adattamento visuo-motorio come l’adattamento ai prismi. Si tratta di vie molto grosse e importanti che, con un percorso un po’ tortuoso, vanno da un emisfero cerebrale al cervelletto e poi dal cervelletto all’altro emisfero cerebrale. Questo percorso alternativo permetterebbero di fare riparlare i due emisferi. I nostri dati più recenti, anche se preliminari, sembrano andare in questo senso. Notiamo infatti che i pazienti che non riescono a recuperare sembrano avere una lesione delle connessioni che passano per il cervelletto, mentre abbiamo notato che queste connessioni funzionano in quelli che recuperano.

I soggetti affetti da neglect ignorano una parte della realtà. Questo potrebbe essere vero anche per soggetti sani?

Effettivamente, lo studio di soggetti affetti da neglect ci insegna che la difficoltà a realizzare un compito è maggiore quando richiede l’uso di vari tipi di attenzione. Si notano inoltre dei tempi di reazione più lenti. Lo stesso avviene per un soggetto sano. È risaputo che le prestazioni si riducono significativamente quando si attivano allo stesso tempo diversi tipi di attenzione, quali per esempio l’attenzione selettiva, indirizzata verso un oggetto preciso, e l’attenzione spaziale, necessaria per orientarsi. Se prendiamo il caso di persone che telefonano mentre guidano, queste persone sono convinte che il fatto di telefonare non tolga attenzione alla guida. I pazienti con neglect si illudono di avere esplorato la totalità dello spazio, la stessa illusione che noi viviamo mentre guidiamo. Mentre telefoniamo, ci sembra di controllare tutto, ma proprio perché l’attenzione è focalizzata su un aspetto, quell’aspetto prende tutta la nostra attenzione, e ci sembra quindi costituire tutto il nostro mondo. Invece purtroppo non è cosi, c’è molto di più che succede intorno a noi di cui non ci rendiamo conto. E soprattutto non ci rendiamo conto di non rendercene conto.
Questa mancanza di consapevolezza è all’origine di molti comportamenti a rischio, come appunto nella guida.

AIUTACI A SOSTENERE I NOSTRI SOGGIORNI ESTIVI CLICCA QUI!

 

I bimbi ereditano gran parte dell’intelligenza dalla mamma

I bimbi ereditano l’80% dell’intelligenza dalla mamma! E’ questo il quadro che emerge da uno studio condotto da. Dr. Christopher Peterson dell’Università del Michigan su un campione di oltre 3.500 bambini con un’età compresa fra i 4 e i 9 anni e i relativi genitori.I bimbi ereditano gran parte dell’intelligenza dalla mamma

Per rintracciare la provenienza dell’intelligenza dei piccoli, Peterson ha somministrato dei test d’intelligenza alle coppie e ai bambini, riscontrando, che, le aree in cui i piccoli tendevano ad eccellere, erano in 8 casi su 10 quelle in cui anche la loro madre otteneva ottimi risultati. Una percentuale che saliva fino al 90% e più quando ad essere testate erano specifiche aree dell’intelligenza, ovvero:- Intelligenza linguistica verbale (capacità di scrivere, comunicare, giocare con le parole, creare rime, poesie, filastrocche);– Intelligenza musicale (capacità di riconoscere timbri, suoni ed imitare il tono di voce altrui);– Intelligenza intrapersonale (comprensione di sé e delle proprie emozioni con conseguente inserimento sociale);– Intelligenza interpersonale (comprensione delle esigenze e dell’interiorità altrui e attitudine alla leadership).
 
 
Fonte: Italia Notizie
neurone

I dendriti dei neuroni sede della memoria

neurone

I dendriti dei neuroni sede della memoria. I piccoli prolungamenti dei neuroni simili a ‘rami’, a determinare quali esperienze vengono immagazzinate nel ‘serbatoio’ della memoria e quali no: quando essi si attivano, infatti, l’esperienza entra a far parte della memoria durevole. Ad affermarlo, sono due ricercatori della Northwestern University negli Stati Uniti, Mark E. J. Sheffield  e Daniel A. Dombeck,che hanno pubblicato i risultati in uno studio* su Nature.

La registrazione di un’esperienza nella memoria, dunque, sembra dipendere dall’attività dei dendriti.
I ricercatori, in uno studio su animali, hanno mostrato in che modo i neuroni permettono laformazione della memoria. Utilizzando un microscopio particolare, essi hanno osservato l’immagine del cervello di topolini, realizzando una vera e propria mappa del ‘labirinto’ di cellule nervose presenti nell’ippocampo: qui, infatti, ci sono centinaia di migliaia di neuroni, chiamati ‘place cells’ (‘cellule di luogo’), fondamentali per il sistema ‘GPS’ del cervello e i ricercatori sono riusciti a rappresentare, attraverso una tecnica microscopica, l’attività dei singoli dendriti in questi neuroni. Questi neuroni nell’ippocampo sono stati scoperti nel 1971 dal neuroscienziato John O’Keefe, vincitore in quell’anno del premio Nobel per la Medicina e Fisiologia.

n particolare, gli scienziati hanno osservato che i dendriti non vengono sempre attivati quando è attivo il corpo della cellula nervosa (la parte centrale del neurone, chiamata soma). Essi hanno così mostrato che l’attività del corpo del neurone risultava differente da quella del dendrite. La memoria durevole, infatti, non si formava nel caso in cui il corpo della cellula fosse attivo ma il dendrite fosse inattivo: una scoperta che illustra come il dendrite sia essenziale nella formazione della memoria. Il risultato suggerisce che, mentre il corpo della cellula nervosa sembra rappresentare l’esperienza in corso, il dendrite aiuta ad immagazzinarla, come una sorta di ‘registratore’ di esperienza: al contrario, finora si pensava che le funzioni neuronali che ‘processano’ e accumulano la memoria fossero strettamente collegate e andassero sempre insieme.
 
Lo studio, sottolineano i ricercatori, potrebbe aprire nuove prospettive di ricerca per combattere patologie collegate alla memoria, come la malattia di Alzheimer, individuando nei dendriti potenziali bersagli per trattamenti terapeutici.
 
*Mark E. J. Sheffield, Daniel A. Dombeck, Calcium transient prevalence across the dendritic arbour predicts place field properties, Nature (2014), Published online 26 October 2014, doi:10.1038/nature13871

(Fonte: Quotidianosanitaonline.it)